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La psicoterapia per “vivere e non sopravvivere”. Puglia Sanità ne parla con il dott. Giovanni Giuseppe Nestola

Dietro i falsi miti legati alla figura dello psicoterapeuta si cela in realtà un essere umano che svolge un compito difficilissimo: traghettare il paziente, attraverso un percorso di accettazione di sé e della realtà che lo circonda, verso una vita serena e piena d’amore. Noi di Puglia Sanità ne abbiamo parlato con lo psicologo e psicoterapeuta dott. Giovanni Giuseppe Nestola, specializzato in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Con lui abbiamo snocciolato i tratti più salienti della sua professione, della relazione con i pazienti e della necessità di chiedere aiuto quando si sente di averne bisogno.

 

Come definirebbe la psicoterapia e a chi si rivolge con la sua professione?

 “A questa domanda potrei rispondere o in maniera accademica e quindi dire che la psicoterapia è un percorso di cura, dove il professionista indaga su ciò che fa soffrire il paziente e nuoce al suo benessere psicologico, cercando, attraverso tecniche e nozioni, di aiutarlo. Ma sarebbe troppo semplicistico. Oltre ad essere un percorso, la psicoterapia è soprattutto una relazione tra due individui che necessariamente si influenzano. Non si tratta di una relazione, come potrebbe sembrare, unidirezionale: lo psicoterapeuta non è il professionista che da dietro la scrivania dà delle direttive senza essere influenzato. Chi racconta questo non fa bene il nostro lavoro. La psicoterapia è quindi una relazione tra due individui dove il professionista, in qualsiasi modo e con tutti gli strumenti a sua disposizione, cerca di curare il paziente e capire il nucleo della sofferenza e prepararlo ad essere indipendente dal terapeuta. La relazione non deve dunque essere di tipo asimmetrico, terapeuta-paziente, ma, soprattutto quando, ad esempio, si ha a che fare con minori, la relazione deve essere di tipo simmetrico, il paziente deve sentirsi accolto e lo psicoterapeuta deve parlare la sua stessa lingua”.

Lei è specializzato in Psicoterapia cognitivo-comportamentale. Qual è la sua area d’azione?

“La terapia cognitivo-comportamentale interviene sia a livello cognitivo e dunque sui pensieri che suscitano le emozioni, sia sugli schemi e meccanismi comportamentali che un paziente mette in atto. Parlo di ‘paziente’ perché una volta che la persona entra nello studio va necessariamente definita tale. In realtà ciascuno di noi mette in atto schemi e meccanismi fissi, alcuni dei quali possono essere disfunzionali. La terapia cognitivo-comportamentale si basa proprio su ciò: pensieri che ci influenzano e i comportamenti messi in atto per fronteggiare la nostra sofferenza. È proprio sugli schemi disfunzionali che si interviene facendo un confronto tra interpretazione del paziente e la realtà. Già solo questo è un passo verso il benessere psicologico”.

Entrare in “empatia” con i pazienti è molto difficile, come ci riesce?

“Non sempre ci riesco. Spesso il termine ‘empatia’ viene usato in maniera spropositata, significa sostanzialmente mettersi nei panni dell’altro. Questo però non significa che c’è una spinta motivazionale: io posso capire l’altro, ma non necessariamente sono spinto ad aiutarlo. È questo che differenzia lo psicoterapeuta dall’amico, compagno di vita, professore, etc. Lo psicoterapeuta ha il dovere di avere la spinta non solo nel capire e nel mettersi nei panni del paziente, ma essere motivato nell’aiutarlo”.

Secondo lei esiste una fascia d’età cui sarebbe consigliato iniziare un percorso di psicoterapia?

“Non credo che esista una vera e propria fascia d’età. Credo che per iniziare un percorso di psicoterapia sia necessario che il paziente abbia dei funzionamenti metacognitivi importanti, altrimenti la terapia è destinata al fallimento. Più che fascia d’età, nel momento in cui il paziente, un minore o chi affianca un minore si rende conto che i propri bisogni non sono più una priorità, è quello il momento di intervenire e di chiedere aiuto. Tuttavia, chiedere aiuto non è sempre facile: ad esempio, nel caso di un minore, è fondamentale che chi lo affianca capisca quel momento. Per come interpreto il mio lavoro di psicoterapeuta, nel momento in cui ciascuno di noi non mette come priorità i propri bisogni si rende necessario intraprendere un percorso psicoterapeutico”.

Si parla tanto di “prevenzione psicologica”. In che misura lo psicoterapeuta può intervenire per prevenire l’insorgenza di un disagio?

“Il lavoro che può fare lo psicoterapeuta nelle scuole, superiori e medie, può riguardare non solo i minori e le insegnanti, ma aiutare l’intera società. Un minore che riesce a comprendere il proprio funzionamento – io non parlo di disagio – senza aver paura di ciò che sta accadendo, sarà un adulto più flessibile; tutto ciò che porta ad uno scompenso – o “disagio” come ha detto lei – è la rigidità rispetto agli eventi della vita. Se noi insegniamo ai ragazzi – e ci tengo particolarmente perché da anni lavoro con loro – ad essere flessibili saranno adulti in grado di funzionare meglio, guardare la vita con più speranza e soprattutto in grado di amare”.

Saprebbe dirmi se c’è una categoria di persone che non prenderebbe mai in carico?

“No. Parto dal presupposto che non amo categorizzare le persone. Anche se la psicologia e psicopatologia occidentale tendono a classificare le persone all’interno di categorie di disturbi ben precisi, io preferisco parlare di soggetti e di bisogni che i pazienti possono avere. Quello che posso dirle è che non amerei avere un paziente che non è motivato, né un paziente che è stato forzato ad entrare nel mio studio, né un parente o amico. Vorrei sottolineare un aspetto: è molto importante che uno psicoterapeuta capisca quando è il momento in cui non riesce ad essere più d’aiuto. Non siamo dei supereroi. Ci sono stati momenti durante il mio percorso professionale – soprattutto nei primi anni del mio lavoro – in cui i pazienti mi influenzavano talmente tanto dal non essere in grado di ammettere di non riuscire ad aiutarli. Dunque, non si tratta di accettare o meno un paziente, ma di capire se posso o meno aiutarlo”.

C’è qualcosa che vorrebbe dire a chi ha bisogno di intraprendere un percorso  di psicoterapia, ma non lo fa?

“Vorrei dire che il percorso di psicoterapia sicuramente, soprattutto per una questione di cultura, non è visto come qualcosa di accettabile. Ci sono credenze erronee rispetto al mio lavoro: ‘dallo psicoterapeuta vanno i matti’, ‘posso farcela da solo’, ‘perché devo andare a raccontare i fatti miei ad uno sconosciuto’. Tutti questi aspetti sicuramente non giovano a favore del nostro lavoro e nemmeno al benessere sociale. Quello che posso dire è che la psicoterapia è un percorso alla scoperta di sé, che porta ogni paziente a dare un’interpretazione diversa. Tutti noi – me compreso – diamo un’interpretazione alla realtà diversa da ciò che essa è, e che è solo nostra. Quindi andare incontro ad un percorso che ti permette di osservare punti di vista diversi, di mettere a confronto i tuoi pensieri, di non aver paura delle emozioni ma accettarle come facenti parte della natura umana e soprattutto di essere flessibile a tutti gli eventi della vita, credo che possa giovare a tutti, non soltanto a chi soffre di una psicopatologia; può giovare a tutte quelle persone che vogliono condurre una vita serena, con leggerezza. Non è rivolto solo a chi soffre, ma a chiunque voglia semplicemente vivere e non sopravvivere”.

 

 Foto e intervista di Giulia De Nigris

 

 

 

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